Sugli ecclesiastici che si cimentano con l’opera di Charles Darwin – e non ne mancano in questo anno del bicentenario - grava ormai una beffarda maledizione. Qualcuno li aiuti, perché spiace vedere cotali intelligenze brancolare nel buio su una materia che evidentemente non padroneggiano. Esordiscono con le migliori intenzioni di “dialogo” – soprattutto se l’interlocutore è un “genetista cattolico” o un “fisico cattolico”, fantastiche chimere da operetta italiana - ma poi inevitabilmente finiscono per gettare la maschera e per attribuire al vecchio naturalista inglese barbuto ogni nefandezza. E’ più forte di loro: va cacciato nell’inferno dei cattivi della storia, insieme a marxismo, eugenetica, razzismo e quanto di peggio.
Dopo gli anatemi di Fiorenzo Facchini contro il truce naturalismo (addirittura “lombrosiano”) dei darwinisti italiani, è il turno di un altro illustre esponente della gerarchia, il quale in un articolo del 2 luglio su L’Osservatore Romano ci regala uno scivolone che non sappiamo se giudicare imbarazzante, dal punto di vista di qualsiasi studioso serio della storia del pensiero biologico, o piuttosto disastroso, visto che si tratta del Presidente del Pontificio Consiglio della “Cultura”.
Monsignor Gianfranco Ravasi, in un pezzo dal titolo “Ama intensamente l’intelligenza” (citazione da una lettera di Sant’Agostino), si abbandona a diverse acrobazie fra scienza, filosofia e teologia. Scopriamo per esempio che vi sarebbe stata un’evoluzione “progressiva” dei viventi, e così via. Torna alla memoria l’epocale asserzione dello stesso Ravasi apparsa sul Domenicale del Sole24Ore l’11 febbraio 2007, secondo la quale il “punto dialogico di sintesi” fra scienza e fede andrebbe formulato come segue, citando di nuovo Facchini: “Si può ritenere che la scintilla della coscienza di sé [o, se si vuole, nel linguaggio tradizionale, dell’‘anima’] si sia accesa per un intervento superiore in un ominide il cui organismo ha potuto rappresentare un supporto biologicamente idoneo”. In attesa che i paleoantropologi identifichino questo fantomatico ominide miracolato dalla scintilla divina, ancorché ospitata su “supporto biologicamente idoneo”, torniamo allo strafalcione estivo.
Dopo aver sparato ancora una volta sullo spauracchio esangue del “darwinismo sociale”, il noto biblista cita Karl Marx, il quale, udite, “avrebbe voluto dedicare il suo Capitale proprio a Darwin”. Se così fosse, se ne potrebbe discutere, ma è incredibile come una diceria - la cui falsità è stata svelata e spiegata da più trent’anni dagli storici - possa sopravvivere così a lungo nei meandri dell’ideologia. Marx non chiese affatto a Darwin di potergli dedicare Il Capitale. Gliene inviò una copia autografata, alcuni anni dopo l’uscita. Darwin lo ringraziò con una lettera di cortesia così formale da sembrare imbarazzata. La copia del volume nella biblioteca di Darwin è pressoché intonsa: solo le prime 105 pagine su 822 sono aperte, e non hanno annotazioni. Non sfogliò nemmeno l’indice. Marx, da parte sua, raffreddò ben presto i suoi entusiasmi per l’evoluzione darwiniana quando vi colse quelli che a suo avviso erano i “pregiudizi ideologici” borghesi e maltusiani della libera concorrenza.
Chi chiese a Darwin di potergli dedicare un’opera del 1881 (“The Student’s Darwin”) fu il pensatore socialista e ateo Edward Aveling, compagno della figlia di Marx, Eleanor. La vicenda, e i succosi fraintendimenti che ne seguirono, è ricostruita nei dettagli da Lewis S. Feuer in “Is the ‘Darwin-Marx correspondence’ authentic?”, del 1975 (in Annals of Science, 32, pp. 1-12), da Margaret A. Fay in “Did Marx offer to dedicate Capital to Darwin?”, del 1978 (in Journal of the History of Ideas, 39, pp. 133-146), e da Ralph Colp Jr. in “The myth of the Darwin-Marx letter”, del 1982 (in History of Political Economy, 14(4): 461-482). Si notino gli anni di pubblicazione: è letteratura acquisita da più di trent’anni. Ci permettiamo di consigliarne la lettura a Monsignore, essendo sinceramente dispiaciuti per l’incidente in cui è incorso. La spropositata influenza che esercita in Italia la testata d’Oltretevere dovrebbe suggerire di “amare intensamente” non soltanto l’intelligenza, ma anche il rispetto delle fonti storiografiche e dei fatti. Ve lo immaginate, che spasso, un biologo evoluzionista che cade miseramente sull’interpretazione di un Salmo? Si alzerebbe il coro unanime degli editoriali sulla “scienza arrogante” e qualche dirigente del Partito Democratico detterebbe subito il suo grido di dolore alle agenzie.
Ricordiamo anche come finì la storia. Darwin, fiutando l’opportunismo della richiesta di Aveling (e non di Marx), cortesemente rifiutò, con queste parole di semplice fiducia negli effetti a lungo termine degli avanzamenti della scienza: “Mi pare (a torto o a ragione) che le argomentazioni dirette contro la cristianità e il teismo non producano sul pubblico quasi effetto alcuno; e che la libertà di pensiero sia promossa nel modo migliore dalla graduale illuminazione delle menti umane che fa seguito al progresso della scienza”. La strategia, tuttavia, non pare aver funzionato. L’illuminazione è stata sì molto graduale, anche troppo, visto che dopo un secolo e mezzo – nello spazio ideale che in Italia va dall’Osservatore Romano a Voyager in prima serata sulla tv dei contribuenti – ancora stiamo parlando di salti ontologici, di ominidi miracolati, di rapimenti alieni, di cerchi nel grano. E di leggende storiografiche.
Telmo Pievani
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